martedì 4 dicembre 2018

Hannah Arendt, Vita activa

(Arendt 2917, pp. 133-136)
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Il pericolo che la moderna emancipazione del lavoro non solo fallisca nell'iniziare un'epoca di libertà per tutti, ma al contrario spinga per la prima volta tutto il genere umano sotto il giogo della necessità, fu già chiaramente intuito da Marx, quando egli insisteva sul fatto che lo scopo di una rivoluzione poteva non essere la già compiuta emancipazione delle classi lavoratrici, ma doveva consistere nell'emancipazione dell'uomo dal lavoro. A prima vista, questo scopo sembra utopistico, il solo elemento strettamente utopistico nel pensiero di Marx (82). L'emancipazione dal lavoro, secondo le stesse parole di Marx, è emancipazione dalla necessità, che significherebbe, in definitiva, emancipazione dal consumo, dal metabolismo con la natura che è la condizione effettiva della vita umana (83). Tuttavia gli sviluppi dell'ultimo decennio e specialmente le possibilità aperte dall'ulteriore incremento dell'automazione, consentono di domandarsi se l'utopia di ieri non diventerà la realtà di domani, così che, alla fine, solo lo sforzo del consumo sarà l'ultimo elemento rimasto di quella fatica e di quella pena connaturate al ciclo biologico al cui motore è legata la vita umana. Tuttavia, nemmeno questa utopia potrebbe mutare l'essenziale futilità mondana del processo vitale. Le due fasi per cui deve passare il ciclo sempre ricorrente della vita biologica, le fasi del lavoro e del consumo, possono mutare le loro proporzioni anche al punto che quasi tutta la «forza-lavoro» umana sia spesa nel consumo, con il concomitante grave problema sociale del tempo libero: cioè, in sostanza, come provvedere sufficienti opportunità di spreco quotidiano per mantenere intatta la capacità di consumo (84). Il consumo senza pena e senza sforzo non muterebbe, ma solo aumenterebbe, il carattere divorante della vita biologica, finché una umanità interamente liberata delle catene della pena e dello sforzo non fosse libera di «consumare» il mondo intero e di riprodurre giornalmente tutte le cose che desidera consumare. Il numero delle cose che comparirebbero e scomparirebbero ogni giorno e ogni ora nel processo vitale di una società del genere sarebbe nella migliore delle ipotesi irrilevante per il mondo, se il mondo e il suo carattere oggettivo potessero resistere al dinamismo incessante di un processo vitale interamente motorizzato. Il pericolo della futura automazione non è tanto la deplorata meccanizzazione e artificializzazione della vita naturale, quanto il fatto che, nonostante la sua artificialità, ogni produttività umana sarebbe risucchiata in un processo vitale enormemente intensificato, e seguirebbe automaticamente, senza pena o sforzo, il suo sempre ricorrente ciclo naturale. Il ritmo delle macchine intensificherebbe a dismisura il ritmo naturale della vita, ma non modificherebbe, rendendola solo più micidiale, la funzione principale della vita rispetto al mondo, che consiste nel consumare ciò che è durevole. La strada che porta dalla graduale diminuzione delle ore lavorative, progredita costantemente per quasi un secolo, a questa utopia, è molto lunga. Inoltre, il progresso è stato piuttosto sopravvalutato perché fu misurato in rapporto alle condizioni eccezionalmente inumane di sfruttamento prevalenti nelle prime fasi del capitalismo. Se pensiamo a periodi un po' più lunghi, l'ammontare totale annuo di tempo libero goduto attualmente non appare tanto un risultato della modernità quanto una tardiva approssimazione alla normalità. Sotto questo e altri aspetti, lo spettro di una società di mero consumo è più allarmante in quanto ideale della società attuale che come una realtà da sempre esistente. L'ideale non è nuovo; era chiaramente indicato nell'assunto incontestato dell'economia politica classica che lo scopo finale della "vita activa" è lo sviluppo della ricchezza, l'abbondanza e la «felicità del maggior numero». E che cos'altro è, infine, questo ideale della società moderna se non l'antico sogno del povero e dell'indigente, che può avere un fascino finché rimane un sogno, ma diventa il paradiso di un pazzo non appena è realizzato? La speranza che ispirava Marx e gli uomini migliori dei vari movimenti operai - che il tempo libero potesse emancipare definitivamente gli uomini dalla necessità e rendere produttivo 1'"animal laborans" - si basava sull'illusione di una filosofia meccanicistica secondo cui la forza-lavoro, come ogni altra energia, non deve andare mai perduta, così che, se non è spesa ed esaurita nel lavoro faticoso per vivere, potrà dar vita automaticamente ad altre, «superiori» attività. Questa speranza di Marx aveva indubbiamente come modello l'Atene di Pericle che, nel futuro, con l'ausilio della produttività enormemente aumentata del lavoro umano, non avrebbe più avuto bisogno di schiavi per esistere, ma sarebbe divenuta una realtà per tutti. Un centinaio d'anni dopo Marx comprendiamo l'errore di questo ragionamento; il tempo libero dell'"animal laborans" non è mai speso altrimenti che nel consumo, e più tempo gli rimane, più rapaci e insaziabili sono i suoi appetiti. Che questi appetiti divengano più raffinati - così che il consumo non è più limitato alle cose necessarie, ma si estende soprattutto a quelle superflue - non muta il carattere di questa società, ma nasconde il grave pericolo che nessun oggetto del mondo sia protetto dal consumo e dall'annullamento attraverso il consumo. La verità piuttosto sconsolante è che il trionfo ottenuto dal mondo moderno sulla necessità è dovuto all'emancipazione del lavoro, cioè al fatto che l'"animal laborans" è stato messo nella condizione di occupare la sfera pubblica; e tuttavia, per tutto il tempo che l'"animal laborans" ne rimane in possesso, non può esistere una vera sfera pubblica, ma solo attività private esibite apertamente. Il risultato è quella che è eufemisticamente chiamata cultura di massa, e il disagio radicato e profondo che la caratterizza è una insoddisfazione universale, dovuta da un lato all'equilibrio turbato di lavoro e consumo e, dall'altro, alla persistente richiesta dell'"animal laborans" di ottenere una soddisfazione che può essere raggiunta solo quando i processi vitali dell'esaurimento e della rigenerazione, della pena e del sollievo dalla pena, si incontrano in un perfetto equilibrio. La richiesta universale di felicità e l'infelicità largamente diffusa nella nostra società (le due facce della stessa medaglia) sono i segni più convincenti che viviamo in una società dominata dal lavoro, ma che non ha abbastanza lavoro per esserne appagata. Infatti solo l'"animal laborans", e non l'artigiano né l'uomo d'azione, ha sempre chiesto di essere «felice» o pensato che gli uomini mortali possano essere felici. Uno dei più evidenti segni di pericolo, che mostra come siamo in procinto di tradurre in realtà l'ideale dell'"animal laborans", è la misura in cui la nostra intera economia è divenuta un'economia di spreco, in cui le cose devono essere divorate ed eliminate con la stessa rapidità con cui sono state prodotte, ammesso che il processo stesso non giunga a una fine improvvisa e catastrofica. Ma se l'ideale fosse già una realtà, e noi non fossimo che membri di una società di consumo, non vivremmo più nemmeno in un mondo, ma saremmo semplicemente guidati da un processo in cui le cose appaiono e scompaiono in cicli sempre ricorrenti, appaiono e svaniscono senza mai durare abbastanza per fornire uno sfondo al processo vitale. Il mondo, la casa dell'uomo, costruita sulla terra e fatta dei materiali che la natura affida alle mani dell'uomo, non consiste di oggetti da consumare ma di oggetti da usare. Se la natura e in generale la terra costituiscono la condizione della "vita" umana, allora il mondo e le cose del mondo costituiscono la condizione in cui questa vita specificamente umana può avere la propria dimora sulla terra. La natura vista con gli occhi dell'"animal laborans" è la grande fornitrice di tutte le «buone cose», che appartengono egualmente a tutti i suoi figli, che «[le] prendono dalle [sue] mani» e «si mescolano con» essa nel lavoro e nel consumo (86). La stessa natura, vista con gli occhi dell'"homo faber", il costruttore del mondo, «fornisce solo i materiali quasi senza valore in se stessi» (87), in quanto l'intero loro valore sta nell'opera che li trasforma. Senza strappare le cose dalle mani della natura e senza consumarle, senza difendersi dai processi naturali della crescita e del deperimento, l'"animal laborans" non potrebbe mai sopravvivere. Ma senza trovare la propria dimora tra oggetti resi dalla loro durata adatti all'uso e alla costruzione di un mondo, la cui permanenza si pone in diretto contrasto con la vita, questa vita non potrebbe mai essere umana Più sarà diventata facile la vita in una società di consumatori o di lavoratori, più sarà difficile rimanere consapevoli della necessità da cui è guidata, anche quando la pena e lo sforzo, manifestazioni esteriori della necessità, sono riconosciuti a stento. Il pericolo è che una società del genere, abbagliata dall'abbondanza della sua crescente fecondità e assorbita nel pieno funzionamento di un processo interminabile, non riesca più a riconoscere la propria futilità - la futilità di una vita che «non si fissa o si realizza in qualche oggetto permanente che duri anche dopo che la fatica necessaria a produrlo sia passata» (88)



Note:
N. 82. La società senza classi e senza stato teorizzata da Marx non è un'utopia. Anche a parte il fatto che gli eventi moderni mostrano una tendenza indubbia a eliminare le distinzioni di classe nella società e a sostituire il governo politico con l'«amministrazione dei beni» che, secondo Engels, rappresenta il tratto caratteristico della società socialista, già in Marx questi ideali erano concepiti in accordo con la democrazia ateniese; soltanto, nella società comunista, i privilegi colà riservati ai cittadini liberi dovrebbero essere estesi a tutti. N. 83. Non è forse esagerato dire che "La condition ouvrière" (1951; trad. it. "La condizione operaia", Milano 1950) di Simone Weil, è il solo libro, nella vasta letteratura sulla questione del lavoro, che tratti il suo oggetto senza pregiudizi e sentimentalismi. Simone Weil sceglie come motto per il suo diario a cui affida giornalmente le sue esperienze di fabbrica, il verso di Omero: "poll'alkadzomene, kratere d'epikeiset ananke" [«molto è contro la tua volontà, perché la necessità è molto più potente di te»] econclude che la speranza di una liberazione dal lavoro e dalla necessità è il solo elemento utopistico nel marxismo, ed è al tempo stesso il motore di ogni movimento del lavoro ispirato al marxismo. Esso è appunto quell'«oppio del popolo» che Marx riteneva essere la religione. N. 84. Questo tempo libero non è naturalmente la stessa cosa che la "schole" dell'antichità, che non era un fenomeno di consumo, abbondante o meno, e non si connetteva al problema di guadagnare del tempo strappandolo al lavoro, ma consisteva al contrario in una consapevole «astensione da» tutte le attività connesse con la mera sussistenza, con l'attività del consumo non meno che quella della produzione. Il tratto distintivo di questa "schole", rispetto all'ideale moderno del tempo libero, è la ben nota frugalità della vita greca del periodo classico. E' caratteristico a questo proposito che il commercio marittimo, che era la maggior fonte di ricchezza per Atene, era considerato con diffidenza, sicché Platone, associandosi a Esiodo, raccomandava che le nuove città-stato venissero fondate lontano dal mare. N. 85. Si ritiene che nel Medioevo nessuno lavorasse più che metà dei giorni dell'anno. I giorni festivi ufficiali erano 141 (confer Levasseur, op. cit., p. 329; confer anche Liesse, "Le travail", 1899, p. 253, per la quantità dei giorni di lavoro in Francia prima della rivoluzione). L'estensione mostruosa delle giornate lavorative è un fatto caratteristico dell'inizio della rivoluzione industriale, quando cioè i lavoratori entrarono in concorrenza con le macchine. Prima di allora la lunghezza della giornata lavorativa era di 12 ore nell'Inghilterra del quindicesimo secolo, e di 10 nel diciassettesimo (confer H. Herkner, «Arbeitszeit», in "Handwörterbuch für die Staatswissenschaft", 1923, 1, 889 e segg.). In breve, «i lavoratori, nella prima metà del diciannovesimo secolo, hanno conosciuto condizioni di esistenza peggiori di quelle subite precedentemente anche dai più disgraziati» (Edouard Dolléans, "Histoire du travail en France", 1953; trad. it. "Storia del movimento operaio", Firenze, 1968, 3 voll.). La misura del progresso conseguito nel nostro tempo è generalmente sopravvalutata, perché viene comparato a una vera e propria «età buia». Può accadere per esempio che l'aspettativa di vita dei paesi più civili del nostro tempo corrisponda a quella di certi secoli dell'antichità. Non è possibile una maggiore precisione, ma la durata della vita dei personaggi di cui ci restano le biografie suffraga questa ipotesi. N. 86 Locke, op. cit., sez. 28. N. 87. Ibid., sez. 43.
N. 88. Adam Smith, op. cit., I, 295.

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