" In realtà,
Hannah Arendt non propone affatto la "polis" come modello della politica,
ma usa il richiamo di quell'esperienza come punto di vista per rappresentare
l'"espropriazione moderna della politica". Per rendersi conto della
forza di questo procedimento critico-ermeneutico basterà riflettere
sull'analisi devastante che Hannah Arendt compie dei luoghi comuni della
politica moderna: la sostituzione del sociale al politico - per cui
l'amministrazione della grande famiglia sociale rimpiazza l'esercizio diretto
della parola in politica; la sostituzione del fare all'agire - per cui la
produttività diviene l'unico senso dell'agire in comune; la sostituzione della
tutela alla padronanza di sé; l'orrore per l'imprevedibilità dell'agire - che
porta a tipi ben peggiori di irreversibilità; la finzione per cui
l'amministrazione dei molti da parte dei pochi, garantita dalla rappresentanza,
viene spacciata per libertà politica; l'ipostatizzazione dello stato come
realtà eterna e necessaria; infine, da un punto di vista più specializzato e
interno alla storia delle idee, l'incapacità del pensiero politico di
emanciparsi da questi presupposti di fatto nonché, come conseguenza diretta, il
declino irreversibile della teoria politica e l'ascesa delle scienze sociali,
la cui funzione dominante è dimostrare l'insensatezza e l'impossibilità della
libertà, in nome di immagini dell'uomo sempre più deterministiche oppure - ma è
in fondo la stessa cosa - utilitaristiche ed esangui.
La grecità
inattuale di Hannah Arendt è tutta nella capacità di distanziarsi dalla
fatalità dell'espropriazione della politica, di rappresentare l'irresistibile
ascesa moderna del "politico" (54) (nel senso di macchina
amministrativa) "contro" la possibilità della "politeia",
della cittadinanza diretta. Il lettore potrà vedere (contrariamente alle letture
stereotipate di "Vita activa") che un sobrio pessimismo permea tutto
il saggio. E benché Hannah Arendt salutasse con entusiasmo le epifanie più o
meno felici (e sempre sconfitte) dell'antica "politeia" - dai
consigli della rivoluzione tedesca a quelli della rivoluzione ungherese del
1956 fino ai movimenti del '68 (55) in Europa e in America, finché non furono
sopraffatti dalle tradizionali mitologie stataliste e violente - sapeva bene
che quella lontana esperienza era tutt'al più una fonte di modelli del
pensiero, ma certamente non una prassi che potesse rivivere." (Alessandro Dal Lago, Introduzione, in H.Arendt, Vita Activa, la condizione umana, Bompiani)
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http://mic.noblogs.org/files/2010/12/Vita-activa.pdf
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