di: Matteo Minetti (Quaderni Cestes N. 18 Maggio 2018, Cestes-USB, Ed. Efesto, pp.53-67)
Lavorare
tanto in pochi o poco in tanti?
C’è
una considerazione che chiunque può fare: la tecnologia e
l’organizzazione del lavoro hanno ridotto il tempo di lavoro
necessario a produrre beni e servizi in una società dell’abbondanza.
Il valore aggiunto è molto di più il risultato di investimenti in
innovazione tecnologica e infrastrutture piuttosto che della maggiore
quantità di lavoro umano.(1)
Nel
breve periodo (Tab01) la produttività del lavoro non sembra aumentata di
molto ma sul lungo periodo l'aumento è impressionante e non si è
accompagnato ad un corrispondente aumento dei salari o diminuzione
degli orari di lavoro. Osserviamo il grafico (Tab02), che mostra i dati
italiani in valore del PIL (in Dollari US ) per ora lavorata in
Italia (in rosso), a confronto con la media OECD (in nero).
Tab02 - Fonte:
OECD - GDP per hour workedTotal, US dollars, 1970 – 2016
Source:
GDP per capita and productivity growth
Di
fronte a questa situazione, ci sono due possibilità: far lavorare
tanto poche persone o poco tante persone.
La
prima soluzione è apparentemente più economica in quanto i salari
non sono commisurati alla produttività bensì al costo di
riproduzione della forza lavoro, che è suppergiù uguale per tutti.
Inoltre, applicando il dogma neoliberista, si limita la spesa
pubblica, pensando di rendere più efficienti i processi produttivi.
Così
non si tiene conto del fatto che le risorse risparmiate
nell’efficientamento sono la sussistenza materiale di milioni di
cittadini che sono relegati nell’indigenza della sotto-occupazione,
con l’effetto aggiuntivo di abbattere la domanda interna e, di
conseguenza, anche la produzione di beni e servizi. Un effetto che
produce sofferenza economica e diminuzione del PIL.
La
seconda soluzione, quella della redistribuzione del lavoro
necessario, e quindi della riduzione del tempo di lavoro individuale,
sembra antieconomica perché aumenta il costo orario del lavoro, ma
globalmente è vantaggiosa per tutti. Anche senza considerare
l’aspetto non direttamente monetizzabile del miglioramento della
qualità della vita, la maggiore disponibilità di tempo libero e di
reddito complessivo attribuito ai salari, avrebbero un effetto di
supporto alla domanda aggregata, quindi una maggiore richiesta di
beni e servizi con un effetto moltiplicatore sul PIL.
Per
innescare questo processo, la riduzione degli orari deve essere
consistente e sopravanzare il contestuale aumento della produttività
(sviluppo senza occupazione).
Questa
è la critica principale da sinistra, alla legge sulle 35 ore in
Francia del 1997, secondo cui la riduzione sarebbe stata troppo
ridotta per ottenere un effetto importante sull'occupazione, che
comunque si è attestato su circa 350.000 nuovi posti di lavoro tra
il 1998 e il 2002.(2)
Il
ruolo dello Stato e l'indirizzo della spesa pubblica.
In
un'ottica post-keynesiana, il ruolo dello Stato come soggetto
economico in grado di governare la crisi del capitale è
assolutamente necessario.
Nella
prospettiva neo-liberista, la disoccupazione è un bene per gli
imprenditori e un male per i lavoratori, nel cui mercato l'offerta è
maggiore della domanda, perché abbassa il costo del lavoro. Se
valutiamo la società nel suo complesso, però, la disoccupazione che
erode i redditi della classe lavoratrice, tra chi non lavora affatto
e chi lavora per salari più bassi, con la minore spesa destinata ai
consumi e «l'effetto materasso», che porta a risparmiare in vista
di tempi più duri, provoca la chiusura in massa di esercizi
commerciali, la caduta dei prezzi e quindi anche dei profitti per
tanti imprenditori. L’esito è la chiusura di impianti produttivi e
lo spreco di risorse umane e materiali che diventano eccedenti,
quindi inutilizzate. Il capitale si sposta facilmente in altri paesi
ma le persone rimangono intrappolate nella situazione impoverita. Sia
i lavoratori che i piccoli imprenditori.
Cosa
può fare quindi lo Stato per contrastare questo generale
impoverimento intervenuto nell'abbondanza, anzi, proprio a causa
dell'abbondanza? La difficoltà di creare il lavoro, seppure vi siano
molti bisogni insoddisfatti, si è aggravata anche per i limiti di
spesa imposti inizialmente dal Trattato di Maastricht (1992) e
successivamente dal Patto di stabilità e crescita (1997) e poi dal
fiscal compact del 2011. Una via praticabile, è quella di far leva
sulla ricchezza accumulata dal capitale e dalle rendite.
Il
10% degli Italiani possiede il 50% della ricchezza complessiva. Nel
2014 «secondo quanto rileva un rapporto dell'Ufficio studi di Bnl,
c’è stato il sorpasso. La ricchezza mobiliare (conti correnti,
azioni, titoli di Stato, polizze, fondi comuni) delle famiglie
italiane è salita a 3.858 miliardi»(3)
ed è in crescita. Questa cifra è circa il doppio del debito
pubblico italiano.
Vista
la difficoltà, e l'assente volontà politica, di imporre regole
rigide ad un mercato reso flessibile da anni di riforme neoliberiste
(privatizzazioni, esternalizzazioni, precarizzazione e
decontrattualizzazione del lavoro dipendente, abbassamento aliquote
IRPEF..), si può cercare di raggiungere l'obiettivo attraverso la
spinta trainante del settore pubblico, che è pur sempre il più
importante agente di spesa nel Paese, favorendo l’internalizzazione
di tanti servizi finora dati in appalto e riducendo
contemporaneamente gli orari di lavoro, per massimizzare l'effetto
sull'occupazione.
Anche un economista
post-keynesiano come Minsky, nel 1969, rilevava l'utilità dello
Stato come «datore di lavoro di ultima istanza» per contrastare
disoccupazione e crisi economica. «Le masse urbane richiedono un
allargamento del settore dei servizi pubblici e urbani. La necessità
di equalizzazione salariale richiedono un governo che espanda
l'occupazione a salari crescenti. Questi programmi potrebbero portare
benefici visibili ai nuovi poveri e quindi potrebbero essere
fattibili»4.
La
posizione di Minsky sottolinea la maggiore utilità dell'impiego
pubblico, rispetto a forme di sussidio al reddito che, seppure
sostengano la domanda aggregata, non forniscono alcun vantaggio in
termini di servizi alla collettività, quindi alla soddisfazione di
bisogni.
Pensiamo
a tutto il settore degli asili nido e scuole per l'infanzia che non
soddisfano lontanamente la domanda, la sanità, i trasporti pubblici,
l'istruzione superiore e l'università. Ci sono poi quei settori
abbandonati da anni o dati in appalto a strutture inefficienti come
quello della tutela del territorio, la manutenzione stradale, la
prevenzione del dissesto idrogeologico, spegnimento degli incendi
boschivi (attualità estiva), la bonifica ambientale di territori
devastati che potrebbero essere attivati da uno Stato come datore di
lavoro di ultima istanza.5
Ci
ricordiamo l'Italia come era prima? Prima del 1992 «lo Stato
imprenditore aveva in carico il 16% della forza lavoro del Paese,
controllava l’80% del sistema bancario, tutta la logistica (treni,
aerei, autostrade), la telefonia, le reti delle utility (acqua,
elettricità, gas), pezzi importanti della siderurgia e della
chimica, il principale editore del Paese (la Rai). E poi,
assicurazioni, meccanica, elettromeccanica, fibre, impiantistica,
vetro, pubblicità, spettacolo, alimentare. Persino supermercati,
alberghi e agenzie di viaggi.»6
Non
si tratta di tornare al passato ma tornare a praticare soluzioni
keynesiane, possiamo dire socialdemocratiche, di controllo del
mercato e gestione politica delle forze economiche.
Il
vantaggio redistributivo delle internalizzazioni.
Dall'epoca
delle grandi privatizzazioni, inaugurata dal governo Amato del 1992,
con Draghi al Tesoro, proseguita con Prodi e supportata dai governi
di centro-destra e centro-sinistra in sostanziale continuità, gran
parte della spesa pubblica è andata ad accrescere i profitti di
aziende private o semi private, in cui i profitti erano sempre
privati e le perdite pubbliche (vogliamo citare Alitalia?). Nei
servizi pubblici, dati in appalto ad aziende private, oltre alla
componente di spesa dei salari troviamo una parte importante che va
ai profitti di impresa, agli intermediatori (legali o meno, tangenti
comprese), ai primi appaltatori che spezzettano la commessa e la
subappaltano a prezzo inferiore.
Ma
lo Stato deve tutelare i profitti dei privati o la coesione sociale e
il benessere dei suoi cittadini? La nostra unica possibilità è
legata alla nostra capacità di superare il dogma del libero mercato,
in realtà ben sostenuto dalla burocrazia statale, imposto dagli anni
'80 del Washington Consensus e trasferito fino agli epigoni del
centro sinistra di ieri e oggi, ben riassunto, ad esempio,
nell'attività accademica e di consulenza alle amministrazioni del
Prof. Riccardo Mussari, docente ordinario a Siena, fratello dell'
Ex-Presidente di MPS e ovviamente in quota PD. 7
Esternalizzazione
e precarizzazione del lavoro
Le
posizioni liberiste che hanno modificato profondamente il sentire
comune, con l'egemonia culturale conquistata grazie alla interessata
proprietà dei mezzi di comunicazione e alla cooptazione del mondo
accademico, non fanno che decantare le virtù delle
esternalizzazioni. La maggiore efficienza (costo/unità di servizio)
delle privatizzazioni e delle esternalizzazioni, tutta da dimostrare
anche in base alla qualità del servizio finale erogato, va in realtà
a discapito dell’occupazione e della creazione di ricchezza.
Facciamo
un esempio pratico. La pubblica amministrazione fa largo uso di
sistemi informatici di gestione ed elaborazione dei dati e di
personale addetto a raccoglierli, aggiornarli, manutenerli. Fino a
tutti gli anni '80 il personale era tutto interno alla P.A., anche se
la formazione tecnica, assieme alle macchine, erano fornite
principalmente da IBM (con l'acquisizione di Olivetti e Bull alla
General Electric, la quota USA arrivava al 70% in Europa)8.
Installatori, manutentori, sistemisti, programmatori, ingegneri,
analisti, operatori. Parliamo di migliaia di persone con competenze
d'avanguardia (all'epoca), inquadrate contrattualmente come
dipendenti pubblici.
Successivamente,
dagli anni '90, complici la politica dei partiti e i sindacati
confederali, società di proprietà pubblica vengono privatizzate,
come Finsiel proprietà di IRI, nel 1997 ceduta a Telecom Italia e
nel 2005, ormai spogliata, acquistata da Almaviva. Durante tutti gli
anni '90 i servizi informatici vengono quasi totalmente
esternalizzati a società private, che hanno avuto contestualmente un
periodo d'oro. All'obsolescenza dei sistemi proprietari utilizzati
nei mainframe IBM e con l'abbassamento dei prezzi dell'hardware, la
spesa principale si è spostata sul Software e su appalti esterni.
Oracle, Microsoft, SAP e altre aziende multinazionali hanno
monopolizzato i sistemi mentre lo sviluppo del software veniva
commissionato a grandi aziende, spesso multinazionali anch'esse, che
a loro volta appaltavano progetti, o parti di essi, ad altre aziende
più piccole, le quali assumevano personale con contratti a tempo,
limitati allo svolgimento di quella parte del progetto, di solito
trimestrale, o affittavano da aziende ancora più piccole, o di
somministrazione, «consulenti» fatturati a giornata. Il cosiddetto
«Body rental» (affitto di corpi) degli anni 2000.
Lungi
dall'essere tecnocrati, questi depositari delle competenze lavorative
(«forza lavoro» direbbe qualcuno) più all'avanguardia si
configuravano oramai come cognitariato, una nuova forma di operaio
frammentato, inquadrato nella categoria dei metalmeccanici, se
assunto regolarmente, ma nella stragrande maggioranza a «Progetto»
e Co.Co.Pro, introdotti nel 2003 dalla Legge Biagi (legge del 14
febbraio 2003 n. 30, in realtà Maroni, allora Ministro del Lavoro) o
tramite lavoro interinale, già previsto dal Pacchetto Treu nel 1997.
Queste tipologie di contratto abolivano completamente le ferie, la
malattia, i permessi, la maternità (in questo caso la madre
concludeva il contratto e poteva essere licenziata al rientro),
persino i versamenti pensionistici non avevano lo stesso valore di un
lavoratore a tempo indeterminato. In deroga all'articolo n. 36 della
Costituzione Italiana, sembrerebbe.
A
fronte di una maggiore potenza tecnologica e di costi minori, sia per
l'hardware che per il software (anche le competenze si erano diffuse
ed erano diventate più accessibili, grazie alla rete e ai numerosi
corsi universitari) i servizi forniti alla P.A. hanno comunque
aumentato i loro costi, arrivati nel 2002 ai massimi livelli, oltre i
2 Mld di euro solo per la P.A. Centrale, (stabilizzati sui
1.600-1.700 negli anni 2007-2008)(9)
e ora in netto rilancio con un progetto da 5,6 Mld per il 2018 (10),
divisi in molteplici voci, di molto eccedenti i salari dei
dipendenti, che si sono nel frattempo abbassati drammaticamente.
Profitti per le aziende fornitrici di software e formazione, profitti
per le licenze dei sistemi operativi (centinaia di milioni a
Microsoft per anno perchè non viene imposto l'uso di software libero
e gratuito), profitti per gli imprenditori del settore ITC delle tre
o quattro aziende appaltanti e subappaltanti a catena, stipendi e
provvigioni per dirigenti e commerciali delle suddette aziende e in
ultimo stipendi per contratti a tempo determinato, in
somministrazione, o contratti a partita Iva e raramente a tempo
indeterminato, per chi effettivamente svolge il lavoro. Solo una
minima parte del costo dell'appalto va ad analisti, ingegneri,
programmatori e sistemisti, i quali prima avrebbero svolto il loro
lavoro, pagato correttamente, tutelato da contratti collettivi,
all'interno della P.A.
Dov'è
la convenienza? Come dicevo, nella tutela dei profitti d'impresa e
nella possibilità di distribuire politicamente i soldi pubblici ad
amici, clienti e sodali, grazie alle gare d'appalto.
Un
sistemista Microsoft per la P.A., dieci anni fa costava 900 euro al
giorno. Al dipendente ventenne, dipendente a tempo determinato
andavano 100 euro lordi al giorno. Oggi che i prezzi sono scesi, si
va dai 200 ai 600 euro al giorno, anche il fenomeno degli appalti a
catena è quasi scomparso. È veramente più conveniente per lo Stato
e per la società tutta, chiamare un consulente solo per i giorni in
cui serve, piuttosto che assumerlo e averlo sempre a disposizione?
Alla P.A. paradossalmente converrebbe assumerlo anche per farlo
lavorare solo pochi giorni al mese, e sarebbe comunque vantaggioso
ridurgli l'orario a sei ore al giorno. Inoltre, la differenza tra i
200-600 euro del costo giornaliero del consulente esterno e i 100-250
euro lordi giornalieri, percepiti dal dipendente, non vanno certo
tutti a sostenere la domanda aggregata, come abbiamo precedentemente
dimostrato.
Questo
breve richiamo all’esperienza concreta vissuta negli ultimi decenni
nel settore informatico dimostra che se le esternalizzazioni, a
parità di spesa, riducono la domanda aggregata, esse riducono
parimenti la qualità e la quantità dell'occupazione , l’inversione
della direzione di questo processo, con le internalizzazioni dei
servizi, può contribuire ad avviare la soluzione del problema della
sotto-occupazione e della precarizzazione.
La
Pubblica Amministrazione come volano del processo.
L'orario
di 36 ore settimanali nella P.A. (art. 17 del C.C.N.L. del 06.07.95,
comma 1) è stato realizzato sulla spinta del dibattito sulla
riduzione del tempo individuale di lavoro che ha portato ad esempio
in Francia alla legge sulle 35 ore e in Italia alla proposta di legge
che si sarebbe dovuta concretizzare nel 1998. Sono passati
esattamente 20 anni. Il protocollo d'intesa tra il governo e
Rifondazione Comunista del 14 ottobre 1997 venne pesantemente
osteggiato. «La maggior preoccupazione di imprenditori e sindacati
sembra essere, in definitiva, quella di uno «scavalcamento» delle
loro competenze. Le loro dichiarazioni paiono disconoscere allo Stato
la facoltà di imporre, anche se a fini sociali, un limite rigido
alla durata del tempo della prestazione lavorativa.»(11)
Al
momento attuale, con la deregolamentazione del mercato del lavoro,
l'uso massiccio di voucher
e partite IVA che mascherano lavoro dipendente, intervenire per
legge, con una riduzione generalizzata degli orari di lavoro a parità
di salario, non porterebbe neppure gli effetti auspicati in quegli
anni, in cui, ricordiamo, la crisi del 2002 e del 2008 non si erano
ancora fatte sentire e la rivoluzione neoliberista non era stata
ancora completamente attuata.
L'effetto
della riduzione dell'orario del lavoro pubblico, attuata nel 1995, è
stato vanificato, in termini occupazionali, dai limiti di spesa
imposti dall'Europa, dai tagli lineari su bilanci e organici delle
amministrazioni, realizzati con il taglio di servizi, blocco del
turnover
(l'età media è di 50 anni), esternalizzazioni e ricorso al lavoro
precario.
«I
tagli al personale, che dal 2007 a oggi hanno riguardato il 5% dei
lavoratori, vale a dire 237.220 persone» (12)
hanno assorbito tutta la spinta occupazionale della riduzione di
orario.
Oggi
l'unica possibilità di rimettere in moto una inversione di tendenza
può partire da ciò che lo Stato, e quindi la politica, controlla
direttamente, ovvero la Pubblica Amministrazione. Occorre che con
coraggio e visione più ampia di una legislatura, ricorrendo magari a
soluzioni sperimentali per ricavare le risorse finanziarie
necessarie, si attui una imponente operazione di internalizzazione
dei servizi con una contemporanea riduzione di orario a parità di
salario, per sostenere l'occupazione. «Le politiche keynesiane,
quando vengono coerentemente interpretate,[...] rappresentano dunque
la forma pratica coerente di un tentativo di dar vita a un sistema
del diritto al lavoro»(13),
in un momento in cui rivendicare questo diritto, non è solo
legittimo, ma assolutamente necessario, per non incorrere in un
aggravamento della crisi economica.
La
spinta dell'incremento numerico di centinaia di migliaia di nuovi
occupati giovani (basta un piccolo incremento percentuale sui 3,2
milioni di dipendenti pubblici) sull'intero sistema del mercato del
lavoro potrebbe, questo sì, risollevare la domanda interna, i
consumi e l'occupazione anche nel settore privato. Anche lì
bisognerebbe agire sulla contrattazione coerentemente con l'obiettivo
nazionale della riduzione di orario a parità di salario, almeno a 32
ore settimanali, forti di una maggiore capacità di negoziazione
acquisita con il raggiungimento dell'obiettivo del settore pubblico.
Fonte:
ISTAT l'Italia in cifre 2016 - Lavoro
Possiamo
osservare dai dati recenti, che gran parte dei lavoratori hanno orari
inferiori alle 40 ore, ma in molti casi questi sono dovuti a
part-time involontari, quindi non ad una scelta ma ad una situazione
di sotto occupazione che non garantisce un livello di salario
sufficiente. Bisogna accettare la riduzione in atto dei tempi di
lavoro, considerare ormai gli orari ridotti come normali e
maggiormente sostenibili per il sistema nel suo complesso,
equiparandoli verso il basso e remunerandoli con il salario pieno.
Il
tema della riduzione del tempo di lavoro individuale, a parità di
salario, deve essere oggi il tema centrale del movimento dei
lavoratori per la redistribuzione del lavoro necessario, in modo più
equo fra tutti.
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1
«Nel 2015 il valore aggiunto
dell'intera economia ha registrato una crescita dello 0,9%
rispetto al 2014. La produttività del lavoro, calcolata
come valore aggiunto per ora lavorata, è diminuita dello
0,3 %, quella del capitale, misurata dal rapporto tra valore
aggiunto e input di capitale, è aumentata dell’1,9%.» [Istat:
1995-2015 Misure di Produttività. www.istat.it ]
2 Secondo
il Servizio statistico del ministero del Lavoro francese (DARES) le
35 ore hanno creato 350.000
nuovi occupati tra il 1998 e il 2002.
3 Fabio
Pavesi,
http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-11-30/il-paradosso-due-italie-ricchezza-privata-record-a-4mila-miliardi-e-debito-pubblico-massimi-171629.shtml
4
H.P. Minsky, Combattere la povertà. Lavoro non assistenza,
Ediesse, Roma, p.149.
5
S.Farolfi, Intervista a Gallino: prima il lavoro, Sbilanciamoci,
luglio 2013, in: Marco Craviolatti, E la borsa e la vita, Ediesse,
Roma 2014, p.97.
6
Francesco Pacifico
http://www.lettera43.it/it/articoli/economia/2013/11/22/privatizzazioni-tentativi-e-risultati-dal-1992-al-2013/104506/
7 Riccardo
Mussari, L’oggetto dell’indagine:
il concetto di esternalizzazione nelle amministrazioni
pubbliche, in: Dipartimento
della Funzione Pubblica, Le esternalizzazioni nelle
amministrazioni pubbliche. Indagine sulla diffusione delle
pratiche di outsourcing, a cura di:
D’Autilia M.L. e Zamaro N., ESI, Roma, 2005.
8 Giuseppe
Nicolosi e Fabrizio Fassio, I
Visionari.L'ambigua Utopia digitale,
Manifestolibri, Roma, 2018, p.54.
9
CAMERA DEI DEPUTATI, XVI LEGISLATURA, Doc. XIII, n. 2-ter (Allegato
III) p. 6.
10
Agenzia per l'Italia digitale, Presidenza del Consiglio dei Ministri
- Piano triennale per l'informatica nella Pubblica Amministrazione
2017-2019, p. 95.
11 Marcello
Pedaci, Le 35 ore in Italia,
Ires Abruzzo, Pescara 2001, p. 85.
12 http://www.adnkronos.com/soldi/economia/2017/05/24/statali-quanti-sono-quantoguadagnano_Q268eaZhNf
n0mzNyjt13II.html
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