domenica 30 dicembre 2018

La redistribuzione e riduzione del tempo di lavoro individuale a parità di salario e ruolo trainante della P.A.

di: Matteo Minetti  (Quaderni Cestes N. 18 Maggio 2018, Cestes-USB, Ed. Efesto, pp.53-67)


Lavorare tanto in pochi o poco in tanti?

C’è una considerazione che chiunque può fare: la tecnologia e l’organizzazione del lavoro hanno ridotto il tempo di lavoro necessario a produrre beni e servizi in una società dell’abbondanza. Il valore aggiunto è molto di più il risultato di investimenti in innovazione tecnologica e infrastrutture piuttosto che della maggiore quantità di lavoro umano.(1)
Tab01 -Fonte: Istat 1995-2015 Misure di Produttività. www.istat.it

Nel breve periodo (Tab01) la produttività del lavoro non sembra aumentata di molto ma sul lungo periodo l'aumento è impressionante e non si è accompagnato ad un corrispondente aumento dei salari o diminuzione degli orari di lavoro. Osserviamo il grafico (Tab02), che mostra i dati italiani in valore del PIL (in Dollari US ) per ora lavorata in Italia (in rosso), a confronto con la media OECD (in nero).

 
Tab02 - Fonte: OECD - GDP per hour workedTotal, US dollars, 1970 – 2016
Source: GDP per capita and productivity growth

Di fronte a questa situazione, ci sono due possibilità: far lavorare tanto poche persone o poco tante persone.
La prima soluzione è apparentemente più economica in quanto i salari non sono commisurati alla produttività bensì al costo di riproduzione della forza lavoro, che è suppergiù uguale per tutti. Inoltre, applicando il dogma neoliberista, si limita la spesa pubblica, pensando di rendere più efficienti i processi produttivi.
Così non si tiene conto del fatto che le risorse risparmiate nell’efficientamento sono la sussistenza materiale di milioni di cittadini che sono relegati nell’indigenza della sotto-occupazione, con l’effetto aggiuntivo di abbattere la domanda interna e, di conseguenza, anche la produzione di beni e servizi. Un effetto che produce sofferenza economica e diminuzione del PIL.
La seconda soluzione, quella della redistribuzione del lavoro necessario, e quindi della riduzione del tempo di lavoro individuale, sembra antieconomica perché aumenta il costo orario del lavoro, ma globalmente è vantaggiosa per tutti. Anche senza considerare l’aspetto non direttamente monetizzabile del miglioramento della qualità della vita, la maggiore disponibilità di tempo libero e di reddito complessivo attribuito ai salari, avrebbero un effetto di supporto alla domanda aggregata, quindi una maggiore richiesta di beni e servizi con un effetto moltiplicatore sul PIL.
Per innescare questo processo, la riduzione degli orari deve essere consistente e sopravanzare il contestuale aumento della produttività (sviluppo senza occupazione).
Questa è la critica principale da sinistra, alla legge sulle 35 ore in Francia del 1997, secondo cui la riduzione sarebbe stata troppo ridotta per ottenere un effetto importante sull'occupazione, che comunque si è attestato su circa 350.000 nuovi posti di lavoro tra il 1998 e il 2002.(2)



Il ruolo dello Stato e l'indirizzo della spesa pubblica.

In un'ottica post-keynesiana, il ruolo dello Stato come soggetto economico in grado di governare la crisi del capitale è assolutamente necessario.
Nella prospettiva neo-liberista, la disoccupazione è un bene per gli imprenditori e un male per i lavoratori, nel cui mercato l'offerta è maggiore della domanda, perché abbassa il costo del lavoro. Se valutiamo la società nel suo complesso, però, la disoccupazione che erode i redditi della classe lavoratrice, tra chi non lavora affatto e chi lavora per salari più bassi, con la minore spesa destinata ai consumi e «l'effetto materasso», che porta a risparmiare in vista di tempi più duri, provoca la chiusura in massa di esercizi commerciali, la caduta dei prezzi e quindi anche dei profitti per tanti imprenditori. L’esito è la chiusura di impianti produttivi e lo spreco di risorse umane e materiali che diventano eccedenti, quindi inutilizzate. Il capitale si sposta facilmente in altri paesi ma le persone rimangono intrappolate nella situazione impoverita. Sia i lavoratori che i piccoli imprenditori.
Cosa può fare quindi lo Stato per contrastare questo generale impoverimento intervenuto nell'abbondanza, anzi, proprio a causa dell'abbondanza? La difficoltà di creare il lavoro, seppure vi siano molti bisogni insoddisfatti, si è aggravata anche per i limiti di spesa imposti inizialmente dal Trattato di Maastricht (1992) e successivamente dal Patto di stabilità e crescita (1997) e poi dal fiscal compact del 2011. Una via praticabile, è quella di far leva sulla ricchezza accumulata dal capitale e dalle rendite.
Il 10% degli Italiani possiede il 50% della ricchezza complessiva. Nel 2014 «secondo quanto rileva un rapporto dell'Ufficio studi di Bnl, c’è stato il sorpasso. La ricchezza mobiliare (conti correnti, azioni, titoli di Stato, polizze, fondi comuni) delle famiglie italiane è salita a 3.858 miliardi»(3) ed è in crescita. Questa cifra è circa il doppio del debito pubblico italiano.
Vista la difficoltà, e l'assente volontà politica, di imporre regole rigide ad un mercato reso flessibile da anni di riforme neoliberiste (privatizzazioni, esternalizzazioni, precarizzazione e decontrattualizzazione del lavoro dipendente, abbassamento aliquote IRPEF..), si può cercare di raggiungere l'obiettivo attraverso la spinta trainante del settore pubblico, che è pur sempre il più importante agente di spesa nel Paese, favorendo l’internalizzazione di tanti servizi finora dati in appalto e riducendo contemporaneamente gli orari di lavoro, per massimizzare l'effetto sull'occupazione.
Anche un economista post-keynesiano come Minsky, nel 1969, rilevava l'utilità dello Stato come «datore di lavoro di ultima istanza» per contrastare disoccupazione e crisi economica. «Le masse urbane richiedono un allargamento del settore dei servizi pubblici e urbani. La necessità di equalizzazione salariale richiedono un governo che espanda l'occupazione a salari crescenti. Questi programmi potrebbero portare benefici visibili ai nuovi poveri e quindi potrebbero essere fattibili»4.
La posizione di Minsky sottolinea la maggiore utilità dell'impiego pubblico, rispetto a forme di sussidio al reddito che, seppure sostengano la domanda aggregata, non forniscono alcun vantaggio in termini di servizi alla collettività, quindi alla soddisfazione di bisogni.
Pensiamo a tutto il settore degli asili nido e scuole per l'infanzia che non soddisfano lontanamente la domanda, la sanità, i trasporti pubblici, l'istruzione superiore e l'università. Ci sono poi quei settori abbandonati da anni o dati in appalto a strutture inefficienti come quello della tutela del territorio, la manutenzione stradale, la prevenzione del dissesto idrogeologico, spegnimento degli incendi boschivi (attualità estiva), la bonifica ambientale di territori devastati che potrebbero essere attivati da uno Stato come datore di lavoro di ultima istanza.5
Ci ricordiamo l'Italia come era prima? Prima del 1992 «lo Stato imprenditore aveva in carico il 16% della forza lavoro del Paese, controllava l’80% del sistema bancario, tutta la logistica (treni, aerei, autostrade), la telefonia, le reti delle utility (acqua, elettricità, gas), pezzi importanti della siderurgia e della chimica, il principale editore del Paese (la Rai). E poi, assicurazioni, meccanica, elettromeccanica, fibre, impiantistica, vetro, pubblicità, spettacolo, alimentare. Persino supermercati, alberghi e agenzie di viaggi.»6
Non si tratta di tornare al passato ma tornare a praticare soluzioni keynesiane, possiamo dire socialdemocratiche, di controllo del mercato e gestione politica delle forze economiche.


Il vantaggio redistributivo delle internalizzazioni.

Dall'epoca delle grandi privatizzazioni, inaugurata dal governo Amato del 1992, con Draghi al Tesoro, proseguita con Prodi e supportata dai governi di centro-destra e centro-sinistra in sostanziale continuità, gran parte della spesa pubblica è andata ad accrescere i profitti di aziende private o semi private, in cui i profitti erano sempre privati e le perdite pubbliche (vogliamo citare Alitalia?). Nei servizi pubblici, dati in appalto ad aziende private, oltre alla componente di spesa dei salari troviamo una parte importante che va ai profitti di impresa, agli intermediatori (legali o meno, tangenti comprese), ai primi appaltatori che spezzettano la commessa e la subappaltano a prezzo inferiore.
Ma lo Stato deve tutelare i profitti dei privati o la coesione sociale e il benessere dei suoi cittadini? La nostra unica possibilità è legata alla nostra capacità di superare il dogma del libero mercato, in realtà ben sostenuto dalla burocrazia statale, imposto dagli anni '80 del Washington Consensus e trasferito fino agli epigoni del centro sinistra di ieri e oggi, ben riassunto, ad esempio, nell'attività accademica e di consulenza alle amministrazioni del Prof. Riccardo Mussari, docente ordinario a Siena, fratello dell' Ex-Presidente di MPS e ovviamente in quota PD. 7

Esternalizzazione e precarizzazione del lavoro
Le posizioni liberiste che hanno modificato profondamente il sentire comune, con l'egemonia culturale conquistata grazie alla interessata proprietà dei mezzi di comunicazione e alla cooptazione del mondo accademico, non fanno che decantare le virtù delle esternalizzazioni. La maggiore efficienza (costo/unità di servizio) delle privatizzazioni e delle esternalizzazioni, tutta da dimostrare anche in base alla qualità del servizio finale erogato, va in realtà a discapito dell’occupazione e della creazione di ricchezza.
Facciamo un esempio pratico. La pubblica amministrazione fa largo uso di sistemi informatici di gestione ed elaborazione dei dati e di personale addetto a raccoglierli, aggiornarli, manutenerli. Fino a tutti gli anni '80 il personale era tutto interno alla P.A., anche se la formazione tecnica, assieme alle macchine, erano fornite principalmente da IBM (con l'acquisizione di Olivetti e Bull alla General Electric, la quota USA arrivava al 70% in Europa)8. Installatori, manutentori, sistemisti, programmatori, ingegneri, analisti, operatori. Parliamo di migliaia di persone con competenze d'avanguardia (all'epoca), inquadrate contrattualmente come dipendenti pubblici.

Successivamente, dagli anni '90, complici la politica dei partiti e i sindacati confederali, società di proprietà pubblica vengono privatizzate, come Finsiel proprietà di IRI, nel 1997 ceduta a Telecom Italia e nel 2005, ormai spogliata, acquistata da Almaviva. Durante tutti gli anni '90 i servizi informatici vengono quasi totalmente esternalizzati a società private, che hanno avuto contestualmente un periodo d'oro. All'obsolescenza dei sistemi proprietari utilizzati nei mainframe IBM e con l'abbassamento dei prezzi dell'hardware, la spesa principale si è spostata sul Software e su appalti esterni. Oracle, Microsoft, SAP e altre aziende multinazionali hanno monopolizzato i sistemi mentre lo sviluppo del software veniva commissionato a grandi aziende, spesso multinazionali anch'esse, che a loro volta appaltavano progetti, o parti di essi, ad altre aziende più piccole, le quali assumevano personale con contratti a tempo, limitati allo svolgimento di quella parte del progetto, di solito trimestrale, o affittavano da aziende ancora più piccole, o di somministrazione, «consulenti» fatturati a giornata. Il cosiddetto «Body rental» (affitto di corpi) degli anni 2000.
Lungi dall'essere tecnocrati, questi depositari delle competenze lavorative («forza lavoro» direbbe qualcuno) più all'avanguardia si configuravano oramai come cognitariato, una nuova forma di operaio frammentato, inquadrato nella categoria dei metalmeccanici, se assunto regolarmente, ma nella stragrande maggioranza a «Progetto» e Co.Co.Pro, introdotti nel 2003 dalla Legge Biagi (legge del 14 febbraio 2003 n. 30, in realtà Maroni, allora Ministro del Lavoro) o tramite lavoro interinale, già previsto dal Pacchetto Treu nel 1997. Queste tipologie di contratto abolivano completamente le ferie, la malattia, i permessi, la maternità (in questo caso la madre concludeva il contratto e poteva essere licenziata al rientro), persino i versamenti pensionistici non avevano lo stesso valore di un lavoratore a tempo indeterminato. In deroga all'articolo n. 36 della Costituzione Italiana, sembrerebbe.

A fronte di una maggiore potenza tecnologica e di costi minori, sia per l'hardware che per il software (anche le competenze si erano diffuse ed erano diventate più accessibili, grazie alla rete e ai numerosi corsi universitari) i servizi forniti alla P.A. hanno comunque aumentato i loro costi, arrivati nel 2002 ai massimi livelli, oltre i 2 Mld di euro solo per la P.A. Centrale, (stabilizzati sui 1.600-1.700 negli anni 2007-2008)(9) e ora in netto rilancio con un progetto da 5,6 Mld per il 2018 (10), divisi in molteplici voci, di molto eccedenti i salari dei dipendenti, che si sono nel frattempo abbassati drammaticamente. Profitti per le aziende fornitrici di software e formazione, profitti per le licenze dei sistemi operativi (centinaia di milioni a Microsoft per anno perchè non viene imposto l'uso di software libero e gratuito), profitti per gli imprenditori del settore ITC delle tre o quattro aziende appaltanti e subappaltanti a catena, stipendi e provvigioni per dirigenti e commerciali delle suddette aziende e in ultimo stipendi per contratti a tempo determinato, in somministrazione, o contratti a partita Iva e raramente a tempo indeterminato, per chi effettivamente svolge il lavoro. Solo una minima parte del costo dell'appalto va ad analisti, ingegneri, programmatori e sistemisti, i quali prima avrebbero svolto il loro lavoro, pagato correttamente, tutelato da contratti collettivi, all'interno della P.A.

Dov'è la convenienza? Come dicevo, nella tutela dei profitti d'impresa e nella possibilità di distribuire politicamente i soldi pubblici ad amici, clienti e sodali, grazie alle gare d'appalto.
Un sistemista Microsoft per la P.A., dieci anni fa costava 900 euro al giorno. Al dipendente ventenne, dipendente a tempo determinato andavano 100 euro lordi al giorno. Oggi che i prezzi sono scesi, si va dai 200 ai 600 euro al giorno, anche il fenomeno degli appalti a catena è quasi scomparso. È veramente più conveniente per lo Stato e per la società tutta, chiamare un consulente solo per i giorni in cui serve, piuttosto che assumerlo e averlo sempre a disposizione? Alla P.A. paradossalmente converrebbe assumerlo anche per farlo lavorare solo pochi giorni al mese, e sarebbe comunque vantaggioso ridurgli l'orario a sei ore al giorno. Inoltre, la differenza tra i 200-600 euro del costo giornaliero del consulente esterno e i 100-250 euro lordi giornalieri, percepiti dal dipendente, non vanno certo tutti a sostenere la domanda aggregata, come abbiamo precedentemente dimostrato.

Questo breve richiamo all’esperienza concreta vissuta negli ultimi decenni nel settore informatico dimostra che se le esternalizzazioni, a parità di spesa, riducono la domanda aggregata, esse riducono parimenti la qualità e la quantità dell'occupazione , l’inversione della direzione di questo processo, con le internalizzazioni dei servizi, può contribuire ad avviare la soluzione del problema della sotto-occupazione e della precarizzazione.


La Pubblica Amministrazione come volano del processo.

L'orario di 36 ore settimanali nella P.A. (art. 17 del C.C.N.L. del 06.07.95, comma 1) è stato realizzato sulla spinta del dibattito sulla riduzione del tempo individuale di lavoro che ha portato ad esempio in Francia alla legge sulle 35 ore e in Italia alla proposta di legge che si sarebbe dovuta concretizzare nel 1998. Sono passati esattamente 20 anni. Il protocollo d'intesa tra il governo e Rifondazione Comunista del 14 ottobre 1997 venne pesantemente osteggiato. «La maggior preoccupazione di imprenditori e sindacati sembra essere, in definitiva, quella di uno «scavalcamento» delle loro competenze. Le loro dichiarazioni paiono disconoscere allo Stato la facoltà di imporre, anche se a fini sociali, un limite rigido alla durata del tempo della prestazione lavorativa.»(11)
Al momento attuale, con la deregolamentazione del mercato del lavoro, l'uso massiccio di voucher e partite IVA che mascherano lavoro dipendente, intervenire per legge, con una riduzione generalizzata degli orari di lavoro a parità di salario, non porterebbe neppure gli effetti auspicati in quegli anni, in cui, ricordiamo, la crisi del 2002 e del 2008 non si erano ancora fatte sentire e la rivoluzione neoliberista non era stata ancora completamente attuata.
L'effetto della riduzione dell'orario del lavoro pubblico, attuata nel 1995, è stato vanificato, in termini occupazionali, dai limiti di spesa imposti dall'Europa, dai tagli lineari su bilanci e organici delle amministrazioni, realizzati con il taglio di servizi, blocco del turnover (l'età media è di 50 anni), esternalizzazioni e ricorso al lavoro precario.
«I tagli al personale, che dal 2007 a oggi hanno riguardato il 5% dei lavoratori, vale a dire 237.220 persone» (12) hanno assorbito tutta la spinta occupazionale della riduzione di orario.

Oggi l'unica possibilità di rimettere in moto una inversione di tendenza può partire da ciò che lo Stato, e quindi la politica, controlla direttamente, ovvero la Pubblica Amministrazione. Occorre che con coraggio e visione più ampia di una legislatura, ricorrendo magari a soluzioni sperimentali per ricavare le risorse finanziarie necessarie, si attui una imponente operazione di internalizzazione dei servizi con una contemporanea riduzione di orario a parità di salario, per sostenere l'occupazione. «Le politiche keynesiane, quando vengono coerentemente interpretate,[...] rappresentano dunque la forma pratica coerente di un tentativo di dar vita a un sistema del diritto al lavoro»(13), in un momento in cui rivendicare questo diritto, non è solo legittimo, ma assolutamente necessario, per non incorrere in un aggravamento della crisi economica.
La spinta dell'incremento numerico di centinaia di migliaia di nuovi occupati giovani (basta un piccolo incremento percentuale sui 3,2 milioni di dipendenti pubblici) sull'intero sistema del mercato del lavoro potrebbe, questo sì, risollevare la domanda interna, i consumi e l'occupazione anche nel settore privato. Anche lì bisognerebbe agire sulla contrattazione coerentemente con l'obiettivo nazionale della riduzione di orario a parità di salario, almeno a 32 ore settimanali, forti di una maggiore capacità di negoziazione acquisita con il raggiungimento dell'obiettivo del settore pubblico.

Fonte: ISTAT l'Italia in cifre 2016 - Lavoro

Possiamo osservare dai dati recenti, che gran parte dei lavoratori hanno orari inferiori alle 40 ore, ma in molti casi questi sono dovuti a part-time involontari, quindi non ad una scelta ma ad una situazione di sotto occupazione che non garantisce un livello di salario sufficiente. Bisogna accettare la riduzione in atto dei tempi di lavoro, considerare ormai gli orari ridotti come normali e maggiormente sostenibili per il sistema nel suo complesso, equiparandoli verso il basso e remunerandoli con il salario pieno.
Il tema della riduzione del tempo di lavoro individuale, a parità di salario, deve essere oggi il tema centrale del movimento dei lavoratori per la redistribuzione del lavoro necessario, in modo più equo fra tutti.
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1 «Nel 2015 il valore aggiunto dell'intera economia ha registrato una crescita dello 0,9% rispetto al 2014. La produttività del lavoro, calcolata come valore aggiunto per ora lavorata, è diminuita dello 0,3 %, quella del capitale, misurata dal rapporto tra valore aggiunto e input di capitale, è aumentata dell’1,9%.» [Istat: 1995-2015 Misure di Produttività. www.istat.it ]
2 Secondo il Servizio statistico del ministero del Lavoro francese (DARES) le 35 ore hanno creato 350.000 nuovi occupati tra il 1998 e il 2002.
3 Fabio Pavesi, http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-11-30/il-paradosso-due-italie-ricchezza-privata-record-a-4mila-miliardi-e-debito-pubblico-massimi-171629.shtml
4 H.P. Minsky, Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, Ediesse, Roma, p.149.
5 S.Farolfi, Intervista a Gallino: prima il lavoro, Sbilanciamoci, luglio 2013, in: Marco Craviolatti, E la borsa e la vita, Ediesse, Roma 2014, p.97.
6 Francesco Pacifico http://www.lettera43.it/it/articoli/economia/2013/11/22/privatizzazioni-tentativi-e-risultati-dal-1992-al-2013/104506/
7 Riccardo Mussari, L’oggetto dell’indagine: il concetto di esternalizzazione nelle amministrazioni pubbliche, in: Dipartimento della Funzione Pubblica, Le esternalizzazioni nelle amministrazioni pubbliche. Indagine sulla diffusione delle pratiche di outsourcing, a cura di: D’Autilia M.L. e Zamaro N., ESI, Roma, 2005.
8 Giuseppe Nicolosi e Fabrizio Fassio, I Visionari.L'ambigua Utopia digitale, Manifestolibri, Roma, 2018, p.54.
9 CAMERA DEI DEPUTATI, XVI LEGISLATURA, Doc. XIII, n. 2-ter (Allegato III) p. 6.
10 Agenzia per l'Italia digitale, Presidenza del Consiglio dei Ministri - Piano triennale per l'informatica nella Pubblica Amministrazione 2017-2019, p. 95.
11 Marcello Pedaci, Le 35 ore in Italia, Ires Abruzzo, Pescara 2001, p. 85.
12 http://www.adnkronos.com/soldi/economia/2017/05/24/statali-quanti-sono-quantoguadagnano_Q268eaZhNf n0mzNyjt13II.html

13 Giovanni Mazzetti, Diritto al lavoro. Beffa o sfida?, Manifestolibri, Roma, 2014, p. 131.

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